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  • lascimmiapensa.it
    Santuari à répit
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    Quando i bimbi rinascevano
    Nella bella collezione Cefis di ex-voto, custoditi nel Museo del Paesaggio di Verbania, ce ne sono alcuni che non possono che far riflettere e lasciare un po’ basiti. La scena, infatti, non ritrae un momento di incidente, né un santo, né tantomeno un orante che prega di fianco ad un letto (cosi tradizionalmente viene rappresentato iconograficamente l’ex voto in caso di malattia). La scena è quella di un corteo funebre che tiene tra le mani un bambino piccolo, appena nato, e lo porta in un santuario, dove magicamente riprende vita per qualche secondo ed un prete prontamente lo battezza, destinando la sua anima al paradiso e non più al limbo. Il bambino è infatti morto alla nascita, senza essere battezzato, per questo non poteva essere seppellito in terra consacrata, né andare in paradiso. L’ex voto testimonia un’usanza molto particolare dell’arco alpino: quella dei “santuari del re  spiro”, i cosiddetti “santuari a repit”. Fiorella Mattioli Carcano, in un libro di recente pubblicazione per i tipi di Priuli e Verlucca, narra proprio l’usanza dei riti “della doppia morte”. In alcuni santuari, tradizionalmente dedicati a Maria, padri e madri giungevano, da lontano, dopo un viaggio che poteva durare giorni ma anche settimane, a seconda delle condizioni meteo, con il bimbo avvolto in un fagotto. In genere il bimbo defunto veniva posto sotto o sopra ad un altare di santa Maria, ponendogli fra le labbra una piuma sottile che, muovendosi, testimonia:. va il momentaneo ritorno in vita del piccolo. Appena questo succedeva si procedeva immediatamente a battezzarlo, di modo che il bimbo, morendo una seconda volta, potesse essere nelle grazie di Dio ed andare in paradiso. Tra questi “santuari del repit” c’è anche quello della Madonna del Boden, anche se purtroppo al suo interno non sono tuttora conservati ex voto che ne attestino la pratica rituale.

  • Libri Ribelli
    Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei luoghi santi delle Alpi
    Priuli e Verlucca editori, via Masero 55 10010 Scarmagno (to) 0125.712266. Pagine 222 euro 14,50. Questa importante ricerca storico-etnografica rievoca una ritualità popolare significativa ed originale. Un tempo la morte di un bambino era frequente ed elaborata dalla mentalità di allora. Ma il decesso prima del battesimo condannava il piccolo defunto al limbo, spazio dell’ Aldilà mai veramente accettato dai fedeli. A queste creature non era concessa neppure la sepoltura in terra consacrata; interrate in luoghi incolti, lungo i fiumi, fra le rocce dei monti, il loro spirito - secondo le leggende - vagava in cerca di pace e tornava a tormentare i viventi. Il desiderio di dare ai propri figli la sal vezza dell’ anima è all’origine del rito e dei santuari del «ritorno alla vita», che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit, del respiro, e altri della «doppia morte» o della «morte sospesa». In questi loca sancta compassionevoli cortei portavano i piccoli che non avevano visto la luce, o avevano chiuso gli occhi nei primi istanti di vita. Non c’era stato il tempo per battezzarli, l’acqua lustrale del primo sacramento non aveva lavato il peccato originale e la loro anima, pur senza colpe personali, era destinata a uno spazio liminale, ai bordi dei luoghi dell ‘ Aldilà, dove non avrebbero sofferto le pene infernali, ma la privazione della vista di Dio. I santuari del ritorno alla vita sono piuttosto rari in Italia, ma le Alpi occidentali ne annoverano diversi, dedicati alla Madonna e ad alcuni santi. Sono frequentemente localizzati in luoghi appartati, su alture, in vallette, nei boschi, ma anche in zone collinari, sovente avvolti in silenzi scanditi solo dal rumore dell’ acqua: tramandano intatto, pur con differenti manifestazioni devozionali, il loro spirito. Davanti alla santa immagine che abitava il luogo, si posava - con infinita speranza - il piccolo morto e - fra preghiere e promesse - si imploravano i celesti protettori perché ottenessero da Dio un miracolo di tenerezza, che attuasse il rovesciamento della situazione, permettendo al bambino di tornare in vita, soltanto il tempo di un respiro. Breve istante fra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati.

  • La Stampa
    Protagonisti e luoghi dei “santuari à répit”
    Un tempo la morte di un bambino era frequente e veniva elaborata dalla mentalità dell’epoca. Ma il decesso prima del battesimo condannavailpiccolo defunto al limbo, spazio dell’Aldilà mai veramente accettato dai fedeli. A raccontare di queste creature e dei luoghi che i familiari avevano trovato per dare ai figli la salvezza dell’anima, è FiorellaMattioliCarcano, nel libro «Santuari à répit» edito da Priuli & Verlucca. I santuari del «ritorno alla vita», che i francesi hanno chiamato «à répit», del respiro, in Italia sono rari e maggiormente presenti in Valle d’Aosta e in Trentino Alto Adige. La presenza di un luogo «à répit» nella Val d’Ayas è desunto dagli atti di un processo per stregoneria: gli studiosi sembrano avere identificato il luogo nella chiesa di San Martino adAntagnod.Altre chiese in cui, davanti alla santa immagine che «abitava il luogo» si posava, con infinita speranza, il piccolo morto, sono le chiese parrocchiali di Issogne e di Gressoney-La-Trinité, le chiese di San Pantaleone a Valpelline e a Courmayeur, la cappelladiSan Teodulo a Torgnon. Due i santuari in cui i genitori, con preghiere e promesse, imploravano i celesti protettori per ottenere da Dio un «miracolo di tenerezza » permettendo al bambino di tornare in vita, il tempo di un respiro: il santuario di Notre Dame a Saint-Marcel e quello dellaMadonna delle nevidiMachaby adArnad.

  • Studi piemontesi
    Santuari à répit
  • Avvenire
    Alpi: i santuari «anti-limbo»
  • avvenire.it
    Alpi: i santuari «anti-limbo»

     
    Adesso che la mortalità infantile è – fortunatamente – quasi un ricordo; adesso che il limbo non c’è più (per meglio dire: è stato dichiarato ufficialmente trattarsi di teoria teologica mai proclamata dogma e comunque superata); adesso forse si potrà analizzare con più pacatezza un fenomeno che invece è stato vissuto passionalmente da molte generazioni precedenti, per le quali fu spesso una questione drammatica. D’altronde la teologia cattolica sembrava chiara in materia, quasi matematica: solo nella Chiesa c’è salvezza, e solo col battesimo si entra nella Chiesa.

    Dunque per salvarsi il battesimo (se non «d’acqua», almeno «di sangue» o «di desiderio») è obbligatorio... E i bambini nati morti? Pur incolpevoli, poveretti, non potevano salvarsi: dovevano «per forza» andare tra i dannati all’inferno. Così almeno secondo sant’Agostino. Ma, proprio per venire incontro alla disperazione di tanti genitori che – oltre al lutto per la scomparsa del figlioletto – avrebbero dovuto digerire l’impossibilità di seppellire il loro innocente congiunto in terra consacrata nonché di incontrarlo un giorno nell’aldilà, l’elaborazione medievale escogitò il limbo: terra liminare (un «lembo», appunto) dell’inferno, nel quale i piccoli avrebbero trascorso l’eternità senza piena visione di Dio ma anche senza pene né dolori. Non c’era alternativa. O meglio, una debole diversa possibilità esisteva e consisteva nel recarsi nei Santuari à répit, quei luoghi santi situati soprattutto sulle Alpi dove da tempi immemorabili si celebrava «il rito del "ritorno alla vita" o "doppia morte"», come sunteggia il titolo dell’opera dell’antropologa e storica piemontese Fiorella Mattioli Carcano: un libro (Priuli & Verlucca, pp. 222, euro 14,50) quasi unico sull’argomento, almeno per quanto riguarda l’Italia. I cosiddetti santuari à répit sono infatti più diffusi oltralpe (dove ne sono stati censiti 279), e in certe regioni francesi in modo particolare; ma d’altra parte l’autrice giustamente ammonisce a non sottovalutare il fenomeno anche da noi: dove esistono testimonianze soprattutto in Piemonte, Val d’Aosta e Trentino (casi singoli risultano censiti anche in Lombardia, Veneto, Friuli e persino Umbria).

    Era stato ancora sant’Agostino, del resto, a fornire lo spunto all’escamotage popolare per sfuggire il limbo: in una predica, infatti, il vescovo d’Ippona riferiva della temporanea resurrezione di un catecumeno solo per il tempo necessario a battezzarlo. Il leggendario medievale non tardò dunque a popolarsi di altri episodi analoghi, in cui beati intercessori (tra i principali: sant’Orso, sant’Anna, Giovanna d’Arco...) o la Madonna stessa permettevano la miracolosa «rinascita» dei piccoli defunti giusto per il tempo di ricevere il sacramento.

    A testimonianza della durata e della diffusione del fenomeno del répit, il più antico episodio censito dalla professoressa Mattioli Carcano risale al 1172 e sarebbe avvenuto nell’abbazia premostratense di Mariengardt in Olanda, mentre il più recente è del 1912 in Francia; ma il periodo d’oro sono i secoli di Riforma e Controriforma, tra Cinque e Seicento. Per l’Italia l’arco temporale delle testimonianze conosciute va dal 1498 al 1871, in vari luoghi – tutti analizzati nel testo di Priuli & Verlucca – dal Monregalese alla Val di Susa, dal Novarese alla Val d’Aosta, a Tirano (So) e al meranese. La tipologia degli episodi mostra alcune varianti su uno schema però fisso.

    Il bimbo defunto veniva trasportato, in genere dal padre o da parenti, in uno dei luoghi noti per il répit; il viaggio col piccolo cadaverino poteva durare vari giorni, perfino 15. Giunti a destinazione, il neonato veniva «esposto» ai piedi dell’altare recante l’immagine sacra, a volte per cura di una persona deputata a ciò (un eremita, una «mammana»), e dopo varie preghiere si celebrava la messa. L’elevazione era il momento in cui preferibilmente avrebbe dovuto verificarsi il «miracolo»: la contrazione di un muscolo, l’emissione di sangue o di muco dal naso o dalla bocca, il movimento di una piuma appositamente collocata sulle labbra del neonato, un cambiamento di colore delle guance... Se qualcuna di tali condizioni sembrava essersi verificata, allora avveniva il battesimo sub condicione (ovvero «a condizione» che il soggetto fosse veramente vivo); poi il piccolo poteva essere finalmente seppellito, spesso nel cimitero del santuario stesso.

    Se invece il prodigio non si fosse verificato, rimaneva a parziale consolazione la possibilità di inumare il defunto all’esterno della chiesa, preferibilmente sotto gli scoli dell’acqua piovana del tetto: ché, se l’acquasanta del battesimo non aveva potuto benedire il corpo, almeno lo lavasse in perpetuo quella che scorreva dal cielo alla terra attraverso la mediazione di un luogo sacro. Ovvio che la suggestione o addirittura la superstizione giocassero nella maggioranza dei casi un ruolo preponderante: alcuni «luoghi della morte sospesa», posti su un monte o accanto a una sorgente «magica», erano infatti già stati sacri al culto pagano; d’altronde le anime dei bambini morti senza battesimo erano popolarmente assimilate a spiriti vaganti della notte o a folletti dispettosi e macabri da acquietare con riti più o meno esoterici.

    Non per nulla la Chiesa «ufficiale» ha spesso osteggiato la pratica del répit, non solo esibendo i pareri negativi dei teologi (quelli, si sa, sono pur sempre «intellettuali»...) ma anche attraverso disposizioni pastorali emanate dai vescovi, fino alla condanna firmata da Benedetto XIV nel 1755. Unica osservazione – ma importante – al generoso lavoro di Fiorella Mattioli Carcano è sul significato dell’espressione à rèpit; la studiosa, sulla scorta di precedenti saggi, riferisce che si tratta di un vocabolo d’antico francese usato in Piccardia e lascia intendere che significhi «respiro»: nel senso sia dell’emissione d’aria che testimonia il «ritorno alla vita» del bambino, sia (soprattutto) della brevissima durata della resurrezione; il «tempo di un respiro», appunto. Ma forse répit riprende piuttosto la radice di «rispetto», parola che nel Medioevo indicava la tregua da un’attività, la sosta in una fatica, la sospensione che il sovrano feudale concedeva al pagamento di una tassa, dunque anche la momentanea interruzione nel potere assoluto della morte. La definizione migliore dei luoghi del répit porrebbe essere allora «santuari dell’intervallo». Poetico, no?

  • Luna Nuova
    Il risveglio del bimbo morto

  • La Vallee
    Conferenza suiSantuari a repit

  • Corriere di Novara
    "Santuari à répit" o del respiro
  • Il Verbano
    I santuari della "doppia morte" in uno studio della Carcano
     

  • Torino Sette

    Santuari à répit


    Un volume suggestivo che parla di un argomento ai più poco noto. I santuari «à répit» (che in francese significa «del respiro ») sono quelli che - in zone per lo più appartate e montane - accoglievano i bambini cui non era stato possibile impartire il sacramento del battesimo. Un rituale di tenerezza che li distogliesse dal «limbo» prescritto, permettendo al bambino di tornare in vita giusto il tempo di quel «respiro» che ne consentisse il passaggio dalla vita terrena alla luce celeste. A partire da una pratica che nasce nel basso Medioevo e che ebbe nel Seicento la sua maggiore diffusione, il libro analizza le fonti e la storiografia del fenomeno, lo svolgimento del rito, l’atteggiamento della Chiesa, costruendo una mappa di presenze tra le Alpi piemontesi e quelle valdostane, con un capitolo finale riservato anche alla Diocesi di Novara.
  • Avvenire
    Il piccolo mondo antico e la fede di una volta
  • Luoghi dell'infinito
    Tradizioni: i santuari del respiro ritrovato
  • La Provincia di Lecco
    L’implorazione a Dio di un «miracolo di tenerezza»
    Tra la più recente produzione della casa editrice Priuli & Verlucca c’è un curioso quanto interessantissimo libro. Si tratta di Santuari à répit di Fiorella Mattioli Carcano che descrive il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei luoghi santi delle Alpi. Un tempo la morte di un bambino era frequente ed elaborata dalla mentalità di allora. Ma il decesso prima del battesimo condannava il piccolo defunto al limbo, spazio dell’aldilà mai veramente accettato dai fedeli. A queste creature non era concessa neppure la sepoltura in terra consacrata; interrate in luoghi incolti, lungo i fiumi, tra le rocce dei monti, i loro spirito – secondo le leggende – vagava in cerca di pace e tornava a tormentare i viventi. Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell’anima è all’origine del rito e dei santuari del «ritorno alla vita», che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit, del respiro, e altri della «doppia morte» o della «morte sospesa ». In questi loca sancta compassionevoli cortei portavano i piccoli che non avevano visto la luce, o avevano chiuso gli occhi nei primi istanti di vita. Non c’era stato il tempo per battezzarli, l’acqua lustrale del primo sacramento non aveva lavato il peccato originale e la loro anima, pur senza colpe personali, era destinata a uno spazio liminale, ai bordi dei luoghi dell’aldilà, dove non avrebbero sofferto le pene infernali, ma la privazione della vista di Dio. I santuari del ritorno alla vita sono piuttosto rari in Italia, ma le Alpi occidentali ne annoverano diversi, dedicati alla Madonna e ad alcuni santi. Sono frequentemente localizzati in luoghi appartati, su alture, in vallette, nei boschi, ma anche in zone collinari, sovente avvolti in silenzi scanditi solo dal rumore dell’acqua: tramandano intatto, pur con differenti manifestazioni devozionali, il loro spirito. Davanti alla santa immagine che abitava il luogo, si posava – con infinita speranza – il piccolo morto e, fra preghiere e promesse, si imploravano i celesti protettori perché ottenessero da Dio un miracolo di tenerezza, che attuasse il rovesciamento della situazione, permettendo al bambino di tornare in vita, soltanto il tempo di un respiro. Breve istante fra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati. Fiorella Mattioli Carcano dal dicembre 1995 al marzo 2006 è stata presidente dell’ente regionale del Sacro Monte di Orta. Attualmente è direttore del dipartimento di Storia delle Religioni e Sacralità della Fondazione
  • La Vallée
    Répit, il ritorno alla vita dei neonati battezzandi
  • alpi365.it
    La recensione su alpi365.it

    Un tempo la morte di un bambino era frequente ed elaborata dalla mentalità di allora. Ma il decesso prima del battesimo condannava il piccolo defunto al limbo, spazio dell'Aldilà mai veramente accettato dai fedeli. A queste creature non era concessa neppure la sepoltura in terra consacrata; interrate in luoghi incolti, lungo i fiumi, fra le rocce dei monti, il loro spirito secondo le leggende - vagava in cerca di pace e tornava a tormentare i viventi. Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell'anima è all'origine del rito e dei santuari del "ritorno alla vita", che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit, del respiro, e altri della "doppia morte" o della "morte sospesa". I santuari del ritorno alla vita sono piuttosto rari in Italia, ma le Alpi occidentali ne annoverano diversi, dedicati alla Madonna e ad alcuni santi. Davanti alla santa immagine che "abitava" il luogo, si posava - con infinita speranza - il piccolo morto e - fra preghiere e promesse - si imploravano i celesti protettori perché ottenessero da Dio un "miracolo di tenerezza", che attuasse il rovesciamento della situazione, permettendo al bambino di tornare in vita, soltanto il tempo di un respiro. Breve istante fra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati.


  • alpinia.net
    La recensione su alpinia.net

    Un libro incredibile, si potrebbe dire, eppure il répit, letteralmente il respiro, era una pratica tra il religioso e il magico molto in voga tra il 1400 e la metà dell'800.
    

Un tempo la morte di un bambino era frequente ed elaborata dalla mentalità di allora, ma il decesso prima del battesimo condannava il piccolo defunto al limbo, spazio dell’Aldilà mai veramente accettato dai fedeli.
    

A queste creature non era concessa neppure la sepoltura in terra consacrata; interrate in luoghi incolti, lungo i fiumi, fra le rocce dei monti, il loro spirito – secondo le leggende – vagava in cerca di pace e tornava a tormentare i viventi.
    

Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell’anima è all’origine del rito e dei santuari del «ritorno alla vita», che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit, del respiro, e altri della «doppia morte» o della «morte sospesa».
    

In questi loca sancta compassionevoli cortei portavano i piccoli che non avevano visto la luce, o avevano chiuso gli occhi nei primi istanti di vita; non c’era stato il tempo per battezzarli, l’acqua lustrale del primo sacramento non aveva lavato il peccato originale e la loro anima, pur senza colpe personali, era destinata a uno spazio liminale, ai bordi dei luoghi dell’Aldilà, dove non avrebbero sofferto le pene infernali, ma la privazione della vista di Dio.

I santuari del ritorno alla vita sono piuttosto rari in Italia, ma le Alpi occidentali ne annoverano diversi, dedicati alla Madonna e ad alcuni santi. Sono frequentemente localizzati in luoghi appartati, su alture, in vallette, nei boschi, ma anche in zone collinari, sovente avvolti in silenzi scanditi solo dal rumore dell’acqua: tramandano intatto, pur con differenti manifestazioni devozionali, il loro spirito.
    

Davanti alla santa immagine che abitava il luogo, si posava – con infinita speranza – il piccolo morto e – fra preghiere e promesse – si imploravano i celesti protettori perché ottenessero da Dio un miracolo di tenerezza, che attuasse il rovesciamento della situazione, permettendo al bambino di tornare in vita, soltanto il tempo di un respiro. Breve istante fra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati.


  • Corriere dell'Arte
    Le pratiche rituali nei secoli
  • Corriere della sera
    Nei santuari del ritorno alla vita



 
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