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Toni Allais

Toni Allais

...non possiedo niente ...ma così ho tutto...

Brossura editoriale con sovraccoperta rigida plastificata, 64 pagine, formato cm 21x29,7 

Quaderno numero 63

ISBN 978-88-8068-102-1
Disponibile in libreria

 

Estratti



L’autobiografia d’un montanaro della Val Varaita (Alpi Occitane della provincia di Cuneo).
L’infanzia, prima col padre arrotino ambulante, poi come pastorello a servizio. La giovinezza nel turbine della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza Partigiana. I rischi del contrabbando, la pena di morte scampata due volte all’ultimo istante, la ferita provocata ad un gendarme francese, il processo e la condanna a dieci anni di lavori forzati.
Gli orrori delle prigioni d’un tempo e le abbiezioni del manicomio criminale, il fortunoso rientro da uomo libero ed il difficile reinserimento nella società. Una drammatica lotta burocratica per ottenere la sospirata licenza di venditore ambulante. Il ritorno ad una vita libera e vagabonda tra i più sperduti paesini montani del Piemonte e della Valle d’Aosta. Soprattutto il grande senso di umanità che pervade il racconto di Toni Allais, fanno della sua autobiografia una delle poche spontanee testimonianze popolari sulla vita della gente alpina, prima, durante e dopo l’ultimo conflitto mondiale.


Mi chiamo Antonio Allais e son nato il 5/11/1927 a Frassino, in Valle Varaita, una valle occitana, come tutta la zona alpina della provincia di Cuneo. I miei genitori, Giuseppe (classe 1875) e Lucia (classe 1992), si lasciarono poco dopo la mia nascita: avevo infatti appena sette mesi quando mia madre, portatomi in un cesto di vimini, mi depose sul tavolo di cucina a casa del babbo e con una scusa fuggì via. Vane furono le ricerche per rintracciarla e così mio padre dovette prendersi cura di me, cosa tutt’altro che facile per un uomo, specie allora.

La prima infanzia

Abitavamo a Torrette, il caratteristico borgo arroccato che si incontra prima di arrivare a Casteldelfino. Mio padre mi portava seco in campagna; quando avevo fame e piangevo, egli mi dava un po’ di polenta. Se questa era esaurita, mi tagliava una fetta di pane duro di mesi che non ero in grado di masticare. Lo faceva per me il babbo; ma siccome succhiava tabacco di continuo, son cresciuto con quel gusto in bocca. Tuttavia risultai forte e robusto. Tant’é vero che, vent’anni dopo, per deplorare certi bambini allevati nella bambagina, venivo ancora portato ad esempio dalle madri di Torrette. Da loro seppi, ad esempio, della volta che quattro donne, rincorsero e bloccarono mio padre, avviato verso i prati per fienare, con me sulle spalle nella culla di legno, lou cros. La fascia che avrebbe dovuto fissarmi alla culla si era allentata e la mia testa ballonzolava a pochi centimetri dalla lama della falce, lou dài, che, con rastrello e tridente viaggiavano sulle spalle assieme a me. Avvertito del pericolo il babbo provvide subito a sistemare il tutto e proseguì verso il proprio lavoro.
Alla morte del nonno, dopo che mio padre aveva diviso con gli zii i beni di famiglia, mia nonna si era sistemata, da sola, in una cameretta poco distante. Ma il mio arrivo la obbligò a tornare ad abitare con noi, nella vecchia casa degli avi, toccata in eredità al babbo, quale primo dei figli. Di mia nonna conservo un vago ricordo, perché, già molto anziana, ci lasciò per sempre nel 1931. Così per la seconda volta rimanemmo soli, io e mio padre.
A quell’epoca vestivo un gonnellino rosso a fiori, come una bimba. Un giorno, nel campo detto la Rouiràsso, mentre il babbo stava bruciando un mucchio di sterpaglie, mi avvicinai al fuoco, attirato dalla novità; ma le fiamme lambirono la mia veste e, in un attimo, avvampai come una torcia. Per fortuna papà intervenne subito e mi salvò. Da allora niente più gonnella da donna.
Intorno ai quattro anni, passavo la mia giornata sulla strada provinciale, davanti all’osteria della signora Giraudo, per vedere i carri che, trainati da muli o cavalli, risalivano l’alta Val Varaita con le più svariate mercanzìe. Era consuetudine che i conducenti si fermassero a bere alla cantina, anche per lasciar riposare gli animali, prima di attaccare l’erta che conduce a Casteldelfino. Le guardie forestali passavano sovente dalla signora Giraudo durante le loro perlustrazioni e, conoscendo la mia storia, mi volevano bene.
Un giorno mio padre venne da loro fermato mentre dal bosco comunale rientrava a casa con un grosso ramo a spalle. Con tale pretesto lo condussero in ufficio, dove lo fecero attendere per una buona mezz’ora il comandante della stazione, che nel frattempo si era allontanato. Il babbo era molto in ansia pensando a cosa avrebbero potuto fargli; ma finì con l’andarsene, commosso e felice, con un grosso pacco di indumenti dismessi dai figli del maresciallo, che questi era andato a ricuperare in casa espressamente per me.

INDICE

Presentazione
La prima infanzia
L’arrotino
La scuola
Il pastorello
Disgrazie
Leggende
Venti di guerra
La vita pastorale
Pietra de’ Giorgi
Il contrabbandiere
Il rastrellamento
La spia
Le falci
La grappa
La guida partigiana
Fucilazioni scampate
Seconda condanna a morte
Il morto che cammina
In cerca di nuovi guai
Il contrabbandiere recidivo
La naia
Il ferimento
Il processo
I lavori forzati
Il manicomio
L’intervento dell’ambasciatore
Il carcere duro
Libero
Venditore di spugne
La grande alluvione
La licenza d’ambulante
Il triciclo Ape
Il pensionato
 
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